Storia della Farmacia
Antiche farmacopee italiane
Il primo manuale farmaceutico per la preparazione di pozioni vegetali, oli, sciroppi, pillole ed unguenti, il Luminare Maius di Giovanni Giacomo Manlio Del Bosco, fu pubblicato a Pavia il 9 Aprile 1494. Non era una farmacopea in senso stretto ma uno strumento pratico, una vera fonte di conoscenze empiriche per medici e speziali e, nonostante i suoi limiti, divenne presto uno strumento insostituibile, tanto da imporsi alla generale attenzione, in molte città italiane, per circa un secolo.
Occorreva superare i vecchi ricettari manoscritti, ma anche assicurare, in forma attendibile, la validità dei farmaci.
I frutti di una pluriennale esperienza, come quelli valorizzati da Del Bosco, potevano essere un punto di riferimento ma era necessario l’intervento di una autorità costituita per conferire il crisma della ufficialità ad un testo che doveva essere imposto in ogni spezieria, in modo da garantire la qualità e l’efficacia dei medicamenti.
All’arbitrio del singolo speziale, per quanto colto e informato, doveva subentrare la norma codificata e nacque così la prima farmacopea.
Fu realizzata a Firenze nel 1499 e fu intitolata Nuovo Receptario composto dal famossisimo Chollegio degli eximii Doctori della Arte et Medicina della inclita ciptà di Firenze.
Questo testo fondamentale, noto come Ricettario Fiorentino, fu pubblicato “in folio” il 21 Gennaio 1498. La data 21 Gennaio 1498 è stilata secondo il calendario fiorentino e deve essere letta 21 Gennaio 1499, secondo il calendario oggi in uso.
Dunque il Nuovo Receptario nasceva per eliminare errori ed abusi e garantire, in modo efficace, medici, speziali e pazienti. Tutta la tradizione farmaceutica veniva fatta confluire in questo agile testo e la grande dottrina classica, greca e latina, si fondeva armonicamente con le speculazione araba e con il frutto degli studi di medici famosi come Dino del Garbo, Gentile da Foligno, Antonio da Scarperia, Guglielmo da Varignana e Cristoforo di Giorgio. Tutto era articolato in tre libri. Nel primo venivano esposte “tutte le cose necessarie circha le electione, preparatione et conservatione di tutti li semplici”. Nel secondo “tutti e lactovari amari et dolci, sciroppi, pillole, trocisci … et le loro compositioni”. Nel terzo, infine, “alcuni canoni circha la preparatione, compositione, electione et preservatione necessarii”.
Ricetta infallibile contro il colera (S. Galeno)
La bottega di uno speziale doveva godere di una ubicazione protetta dagli agenti atmosferici, per la buona conservazione delle sostanze medicinali e degli eventuali preparati. Non meno importante, all’interno di essa, era, però, la presenza di un corredo di opere specialistiche di pronta consultazione, ad esempio l’Anthidotarium di Mesuè il Giovane e l’Anthidotarium di Niccolò Salernitano, il più celebre testo della Scuola Medica Salernitana.
Seguiva il calendario dello speziale. Mese per mese venivano indicate le erbe medicinali da raccogliere e si precisava come conservarle. “Fiori, fructi, semi et barbe” si mantenevano generalmente un anno ma dovevano essere riposti con accortezza. I fiori, i frutti e le radici “in capse di legno, dove non habbino né fumo, né vento, o sole”. I semi “in sacchetti di quoio”. Più complessa era la conservazione dei farmaci preparati. “Tutte le chose umide, chome sono sughi, gomme liquide, confectioni et lactovari” dovevano essere posti “in vasi grossi di terra invetriati”, mentre “tutte le medicine molle che sono buone agli occhi si debbino tenere in vasi di bronzo”. Gli unguenti e le materie grasse dovevano esser tenute “in vasi di stagno”, mentre “tutte le polvere … in sacchetti di quoio bene serrati, di poi messi in vaso invetriato che habbi la bocha streta et ben turata et serrata”. Inoltre “tutti e robbi, tutti gli sciroppi” dovevano essere conservati “in vasi di terra nuovi perché tirano l’umidità”. Il farmaco più celebre, la Teriaca di Andromaco, doveva essere invece riposta “in vaso di piombo o stagno”.
Come appare evidente, nessun aspetto era stato trascurato nel Ricettario Fiorentino ed il suo successo fu costante e duraturo. Impressionante il numero delle edizioni, sempre accompagnate da aggiunte o integrazioni. Di fatto l’importante testo venne ristampato nel 1550, nel 1567, nel 1574, nel 1597, nel 1623, nel 1670, nel 1696 e nel 1789.
Nel pieno Cinquecento costituì, poi, una vera fonte di conoscenze empiriche, per medici e speziali, l’edizione Dell’historia et materia medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, realizzata dal medico senese Pietro Andrea Mattioli e pubblicata a Venezia nel 1544, “Per Niccolò de’ Bascarini da Pavone”.
Il testo, dedicato all’influente Vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo, s’imponeva come un vero e proprio trattato di materia medica, ricco di osservazioni cliniche e dei frutti di una pluriennale esperienza.
Unguento di rana per piaghe (Biblioteca Queriniana di Brescia)
Con spirito pratico, infatti, Mattioli aveva posto alla base del suo lavoro la ricerca della oggettività attraverso l’esperienza, “vero testimonio di tutte le cose”, mettendo in luce “gli infiniti errori, tanto de gli antichi, quanto de’ moderni scrittori”, per giungere a terapie efficaci e comprovate. L’opera ebbe uno straordinario successo e fu ristampata con copiose aggiunte nel 1548, a Venezia, da Vincenzo Valgrisi. In questa seconda edizione fu inserito il sesto libro di Dioscoride, da molti considerato apocrifo, sui veleni ed i loro antidoti e fu aggiunta la descrizione di circa duecento nuove piante, rinvenute dallo stesso Mattioli, nel corso dei suoi viaggi di studio, o segnalate da medici e naturalisti. Non poteva mancare una nuova ristampa e lo stesso Valgrisi la curò nel 1550 inserendo alcune tavole, fra le quali spiccavano quella Da dove si prendono tutti i semplici medicamenti e quella Delli rimedi di tutti morbi del corpo humano.
Il mondo europeo desiderava ormai avere a disposizione questo eccezionale strumento. La lingua italiana non permetteva una vasta circolazione dell’opera e Mattioli decise di realizzarne, nel 1554, una edizione latina: Pedacii Dioscoridis de materia medica libri VI, interprete Petro Andrea Mattheolo, cum eiusdem commentariis, dedicandola a Ferdinando I d’Asburgo, fratello dell’Imperatore Carlo V. I torchi di Valgrisi si misero all’opera ancora una volta ed il testo fu arricchito dalle immagini delle piante, realizzate in xilografia, per facilitarne il riconoscimento e la raccolta. Appena l’anno dopo, nel 1555, fu pubblicata la traduzione italiana dell’edizione latina, con magnifiche illustrazioni: I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli medico sanese ne i sei libri della materia medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo.
Antico erbario (Biblioteca Queriniana di Brescia)
Una nuova farmacopea fu realizzata a Mantova nel 1559. Era un testo ufficiale, redatto in lingua latina ed apparve a Venezia, grazie ai torchi dell’infaticabile Valgrisi. Sul frontespizio si poteva leggere: Antidotarium ex multis optimisque authoribus collectum, castigatum et accurate digestum. Come appare in modo evidente, l’opera si configurava come una sintesi di quanto era stato pubblicato fino a quel momento. Era più snella del Ricettario Fiorentino, meno dotta dei Discorsi di Mattioli, e presto si impose alla generale attenzione per la sua praticità. Lo stesso avvenne, qualche anno dopo, per la Fabrica de gli Spetiali di Prospero Borgarucci, un denso manuale pubblicato a Venezia, sempre da Valgrisi, nel 1566.
Anche a Bologna vediamo comparire nel 1574 un interessante Antidotarium, che fu compilato con l’intervento del celebre naturalista Ulisse Aldrovandi. L’opera ricalcava in larga misura il Ricettario Fiorentino e fu resa obbligatoria, per la corretta composizione dei medicamenti da parte degli speziali, sull’intero territorio. I semplici erano descritti con grande accuratezza, al pari di quei succedanei che costituivano una “alternativa a quelle droghe obiettivamente irreperibili sul mercato”.
Una nuova farmacopea fu realizzata a Mantova nel 1559. Era un testo ufficiale, redatto in lingua latina ed apparve a Venezia, grazie ai torchi dell’infaticabile Valgrisi. Sul frontespizio si poteva leggere: Antidotarium ex multis optimisque authoribus collectum, castigatum et accurate digestum. Come appare in modo evidente, l’opera si configurava come una sintesi di quanto era stato pubblicato fino a quel momento. Era più snella del Ricettario Fiorentino, meno dotta dei Discorsi di Mattioli, e presto si impose alla generale attenzione per la sua praticità. Lo stesso avvenne, qualche anno dopo, per la Fabrica de gli Spetiali di Prospero Borgarucci, un denso manuale pubblicato a Venezia, sempre da Valgrisi, nel 1566.
Anche a Bologna vediamo comparire nel 1574 un interessante Antidotarium, che fu compilato con l’intervento del celebre naturalista Ulisse Aldrovandi. L’opera ricalcava in larga misura il Ricettario Fiorentino e fu resa obbligatoria, per la corretta composizione dei medicamenti da parte degli speziali, sull’intero territorio. I semplici erano descritti con grande accuratezza, al pari di quei succedanei che costituivano una “alternativa a quelle droghe obiettivamente irreperibili sul mercato”.
Biblioteca Angelo Mai – Bergamo
Pure a Bergamo si avvertì la necessità di mettere a disposizione di medici e speziali un pratico prontuario, per impedire, nel modo più drastico, ogni forma di creatività personale nel delicato settore dei farmaci. Nacque così la Pharmacopoea Collegii Medicorum Bergomi, rationem componendi medicamenta usitatiora complectens, pubblicata da Comino Ventura, in quella stessa città, nel 1580.
Circa duecento erano i semplici presi in considerazione. In larga parte erano sostanze medicinali consacrate dalla tradizione, ma non mancavano prodotti nuovi, come il Guaiaco e la Salsapariglia. Questi ultimi erano considerati portentosi nella cura della sifilide e la loro presenza nel testo fa subito comprendere la diffusione di questa patologia e la necessità di reperire validi rimedi.
Biblioteca Angelo Mai – Bergamo
L’opera ebbe notevole diffusione e fu subito ristampata nel 1581, benché la compilazione in lingua latina non ne favorisse una larga fortuna. I farmaci erano suddivisi in sciroppi, succhi, elettuari, pillole, polveri, colliri, oli ed unguenti e, per ogni prodotto, erano rigorosamente indicate le dosi ed i metodi di preparazione. Nel volume il concetto di salute pubblica era chiaramente espresso. Lo speziale era sempre più legato alle leggi ed alle norme dello stato in cui si trovava ad operare. Non è, infatti, una sorpresa trovare tante farmacopee nel pieno Cinquecento. Negli anni di governo di Carlo V d’Asburgo ed in quelli di suo figlio Filippo II vediamo in Italia la nascita, o il rafforzamento di numerosi principati e la correlata necessità di una più coesa organizzazione civile e amministrativa. Il mondo delle malattie e quello delle terapie avevano precise connotazioni politiche ed era opportuno dare la concreta idea della presenza del sovrano ovunque ed in particolare in ciò che era unito alla vita o alla morte della popolazione.
Roma era in attesa di un prontuario ufficiale per la preparazione dei farmaci ed alla fine, nel 1585, Gregorio XIII Boncompagni, conscio dell’importanza del controllo della organizzazione sanitaria, favorì la realizzazione dell’Antidotarium Romanum seu modus componendi medicamenta quae sunt in usu. Il volume fu dedicato allo stesso Pontefice ed il suo emblema araldico, il drago, campeggiava sul frontespizio incorniciato dalle chiavi di S. Pietro. Il testo, stampato a Venezia dai torchi di Giovanni Martini, veniva presentato “Pharmacopolis medicisque non minus utile quam necessarium” ma, nel suo contenuto, non si discostava, in realtà, dalle compilazioni ormai da tempo presenti nei vari stati della penisola. Solo nel 1639 fu realizzata una edizione dell’opera con testo latino e volgare e con numerose aggiunte, grazie all’intervento di Ippolito Ceccarelli e di Pietro Castelli: Antidotario Romano, latino e volgare, tradotto da Ippolito Ceccarelli.
Un nuovo manuale, per la preparazione dei medicamenti più disparati, comparve a Napoli nel 1642. Ne era autore Giuseppe Donzelli, Barone di Digliola ed il suo Antidotario Napolitano s’impose all’attenzione per la sua estrema praticità. Donzelli aveva fatto tesoro dell’Antidotarium Romanum, arricchendolo con nuove preparazioni, frutto dell’esperienza degli speziali partenopei. Il volume conteneva infatti “tutte le ricette delli medicamenti, tanto semplici quanto composti” e costituì la positiva premessa per nuovi studi e nuove ricerche. Donzelli infatti realizzò, pochi anni dopo, lo splendido Teatro farmaceutico dogmatico e spagirico che fu pubblicato a Napoli nel 1667 ed ebbe larga fortuna per tutto il XVII secolo.
L’impostazione di Donzelli fu, in parte, seguita da uno speziale veneziano, Antonio de Sgobbis da Montagnana che, contemporaneamente, realizzò una farmacopea generale intitolandola: Nuovo et universale teatro farmaceutico. L’opera fu stampata a Venezia, a spese dell’autore, nello stesso 1667 suscitando il massimo interesse. Era caratterizzata da uno splendido frontespizio figurato in cui, sotto lo sguardo vigile di Dio, erano presenti i grandi maestri del passato: Ippocrate, Galeno e Mesue. Attorno a loro la Quiete dell’animo, la Sanità, la Sapienza, la Prudenza, la Scienza e l’Arte indicavano la via da seguire per raggiungere il supremo equilibrio. In alto compariva lo struzzo, insegna della spezieria dell’autore, mentre in basso figure allegoriche esprimevano sinteticamente tutte le operazioni necessarie per la corretta preparazione dei rimedi più disparati. La farmacia era ormai divenuta il simbolo della pubblica salute.
L’Età dei Lumi era vicina, con il trionfo della Chimica, della Fisica e della Botanica, grazie a Nicolas Lemery, Antoine Laurent de Lavoisier, Carlo Linneo e Jean Antoine Chaptal. Una nuova farmacopea era necessaria ed a Siena apparve nel 1777, impresso dai torchi di Bindi, l’interessante Ricettario Senese mentre a Firenze si ebbe, nel 1789, una nuova edizione del Ricettario Fiorentino, per ordine del Granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena. L’antico testo era stato interamente rivisto e “ridotto all’uso moderno”. Le formule di un tempo non potevano più essere riproposte ed il Ricettario appariva lo specchio delle concezioni più innovative e della “pratica” del momento.
Interessanti, in questo periodo ricco di trasformazioni, risultano poi le Institutiones Pharmaceuticae di Roberto de Laugier, pubblicate a Modena nel 1788. De Laugier, docente di Chimica e Botanica nella locale università, su invito del Duca Francesco III d’Este, realizzò un pratico strumento per la formazione scientifica degli speziali modenesi. Di fatto de Laugier non compilò una vera e propria farmacopea ma illustrò i fondamenti dell’arte sanitaria, suddividendo, in primo luogo, la Farmacia in teorica e pratica.
Prima di operare materialmente era infatti essenziale, per uno speziale, possedere la cognitio, frutto di attenti studi di Materia Medica, di Chimica e di Fisica. Raggiunto un buon livello di conoscenza in queste discipline, si poteva passare alla farmacia pratica che era suddivisa in tre classi: praeparatio, conservatio et mixtio. Appare evidente il peso crescente attribuito alla Chimica da de Laugier, che ben conosceva la realtà scientifica francese e quella austriaca, dove aveva avuto modo di operare prima di essere chiamato a Modena.
Farmacopea di Francesco Marabelli (Brescia, 1798)
Gli ospedali costituivano ormai un punto di riferimento ed alle loro spezierie si guardava con sempre maggior attenzione. Non a caso, nel 1798, veniva stampato a Brescia, dalla Tipografia Patria, un contributo di particolare spessore: l’Apparatus Medicaminum Nosocomiis ac generatim curationi aegrotorum pauperum maxime accommodus di Francesco Marabelli. Nato nel 1761, compiuti studi classici e perfezionatosi in Chimica, Botanica e Farmacia, Marabelli si affermò rapidamente nel Ticino, prestando la propria opera nel locale ospedale. Fino dal 1795, appena trentaquattrenne, aveva elaborato il progetto di una farmacopea ospedaliera, portandone a compimento la stesura.
Erano stati estremamente produttivi, sotto il profilo scientifico, i contatti con Pietro Moscati, anatomista e chirurgo insigne, attivo proprio nell’area ticinese e Marabelli aveva già pensato di dedicare a lui il frutto delle sue riflessioni e delle sue minuziose esperienze scientifiche. La discesa di Napoleone in Italia, nel 1796, la guerra ed i profondi mutamenti politici che ne furono la diretta conseguenza, fecero, però, fallire quel programma editoriale che fu, comunque, ripreso con vigore nel 1798. Compiute nuove ricerche, Marabelli ritenne maturi i tempi per l’edizione della sua opera. La vita ospedaliera stava vivendo profonde trasformazioni ed occorreva uno strumento agile, specchio delle nuove esigenze e delle acquisizioni farmacologiche che si stavano via via sedimentando.
Biblioteca Queriniana – Brescia
L’amministrazione francese mirava ad una riforma del sistema sanitario pubblico riducendo i costi delle cure e limitando le degenze. Le terapie più onerose, salvo casi eccezionali, dovevano essere sostituite con l’introduzione di succedanei, ma era importante mantenere un livello terapeutico di buona qualità e si richiedeva l’intervento di chimici e di farmacisti per suggerire i prodotti più idonei. In questo senso operò Francesco Marabelli, precisando con cura l’ambito ospedaliero del suo intervento, frutto di una pluriennale esperienza nel ticinese.
Una nuova farmacopea apparve a Ferrara nel 1799, ne era autore Anton Francesco Campana e la sua fortuna sarebbe stata solida e duratura nell’intera penisola italiana. Infatti fu costantemente ristampata ed aggiornata nel corso dell’Ottocento, fino a raggiungere in Italia ventuno edizioni in un arco di soli quarantadue anni. E’ interessante sottolineare che la farmacopea di Campana fu vivamente apprezzata anche in altri paesi europei, tanto che di essa si ebbero due edizioni parigine, una inglese ed una russa. La stessa Farmacopea Ticinese, pubblicata nel 1848, è strettamente connessa all’opera di Campana.
Il trionfo della farmacopea di Campana segnerà il vero trapasso dalla tradizione officinale alla chimica farmaceutica e lo studioso scomparve nel 1832, avendo di fronte agli occhi il pieno successo della sua innovativa operazione scientifica. La Chimica era ormai alla base delle preparazioni farmaceutiche e Luigi Valentino Brugnatelli, ben comprendendo il clamoroso mutamento di indirizzo, realizzò una Farmacopea ad uso degli speziali e medici moderni della Repubblica Italiana, pienamente rispondente alle necessità del momento.
L’opera apparve a Pavia nel 1802, impressa dai torchi di Giovanni Capelli e mostrò subito la piena adesione del suo autore agli ideali della Rivoluzione Francese, allora diffusi in Italia dalle truppe di Napoleone Buonaparte. Il testo, semplice e chiaro, consentiva di realizzare, senza difficoltà, medicinali di ogni genere. Varie tavole esplicative, sulla base del metodo visivo settecentesco, rendevano evidente la strumentazione necessaria e illustravano come procedere per ottenere i migliori risultati. L’agile volume ebbe un clamoroso successo, tanto da venire ristampato, sempre a Pavia, nel 1807, nel 1810, nel 1814 e nel 1817. A Venezia fu pubblicato nel 1803 e nel 1810. A Napoli nel 1803, nel 1806, nel 1808 e nel 1816. A Palermo nel 1811 e nel 1816. Tradotto in francese ebbe anche l’onore di una edizione parigina nel 1811.
Il trionfo della Chimica si avvicinava a grandi passi. Occorreva una farmacopea che fosse ancor più specchio della nuova realtà scientifica e delle esigenze di una medicina ormai protesa verso le acquisizioni più avanzate, fondate sul metodo sperimentale. Giovacchino Taddei si fece interprete delle necessità del momento e la sua Farmacopea Generale sulle basi della Chimica Farmacologica o Elementi di Farmacologia Chimica, pubblicata a Firenze, in quattro volumi, nel 1826, fu una rivoluzione. Taddei, Professore di Farmacologia e Intendente di Farmacia nell’Arcispedale fiorentino di Santa Maria Nuova, nel delineare il piano dell’opera, fu chiarissimo fin dall’inizio: ”Ho tentato d’erigere su i saldi fondamenti della Chimica Farmacologica l’edifizio d’una Farmacopea Generale, nella quale possano gli alunni attingere i sani precetti dell’arte farmaceutica, i farmacisti passare in rivista i metodi di preparazione già conosciuti, modificarli e ampliarli e i medici raccogliere dell’utili nozioni sulla maniera di ben formulare”.
Il cammino intrapreso così brillantemente fu subito proseguito da Giuseppe Orosi. Nel 1846, nel corso dell’ottavo Congresso degli Scienziati Italiani a Genova, Giovacchino Taddei aveva sollevato il problema della necessità di un codice farmaceutico comune per tutti gli stati della penisola, in modo da garantire una reale uniformità delle preparazioni medicinali. Nonostante alcuni tentativi il progetto non fu concretamente realizzato ma Orosi, brillante “Intendente di Farmacia” presso l’Ospedale di Livorno, non esitò a farsi carico, da solo, dell’eccezionale impresa, che portò a compimento nel 1849. Fu infatti stampata in quell’anno, a Livorno, la prima edizione della sua innovativa Farmacologia teorica e pratica, o Farmacopea Italiana, che non solo gli garantì larga fama ma, sia pure per un brevissimo periodo, la cattedra di Chimica Farmaceutica presso la Scuola di Specializzazione esistente all’interno dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova a Firenze.
Orosi, riprendendo l’impianto delineato da Taddei, accentuò ulteriormente il peso della Chimica Farmacologica nei diversi aspetti terapeutici. I prodotti di sintesi divenivano ormai dominanti ed ogni valente farmacista doveva comprendere la complessità di ogni preparazione per giungere ai risultati più efficaci e di lunga durata. Lo stesso Orosi era un abile sperimentatore e sottopose il suo lavoro a continui rifacimenti, tanto che l’edizione del 1856-1857, per precisione la terza, risulterà quasi raddoppiata rispetto alla prima. In primo luogo veniva adottato il sistema metrico decimale, abolendo quelle unità di misura in libbre, once, drammi, scrupoli e grani ancora presenti in molti stati e fonte di costante confusione.
Occorreva davvero qualcosa di nuovo, qualcosa che differenziasse nettamente l’ambito del mondo farmaceutico da quello della medicina ed alcuni anni dopo, Orosi realizzò un nuovo contributo straordinario, un Manuale dei Medicamenti galenici e chimici con la descrizione dei loro caratteri, la loro preparazione, la virtù terapeutica, le formule di uso medico, le incompatibilità relative, le adulterazioni commerciali, gli antidoti, che venne pubblicato a Firenze nel 1867.
L’opera era essenzialmente di carattere pratico ed aveva come oggetto “la cognizione pressoché intera delle sostanze medicamentose”, esposte alfabeticamente e di facile reperibilità. Non mancava un sintetico vocabolario medico-farmaceutico, a cui seguivano nozioni di posologia generale, secondo le età e tavole relative a pesi, misure, quantità. La classificazione terapeutica dei medicamenti vedeva la suddivisione in Encefalici, Stimolanti, Tonici, Amollienti, Refrigeranti, Evacuanti, Acidi, Antacidi e Topici. Concludeva il volume un dettagliatissimo Indice delle materie, in grado di soddisfare ogni esigenza. La fatica di Orosi era davvero eccezionale e costituiva un esempio straordinario di cultura scientifica offerta e divulgata per un servizio di pubblica utilità, sulla base di quei principi morali, così diffusi nel XIX secolo, che legavano gli operatori sanitari all’altruismo ed alla più generosa solidarietà.
La prima Farmacopea Ufficiale Italiana venne pubblicata il 3 maggio del 1892 (Regno d’Italia) e inglobava le farmacopee in vigore peima dell’unificazione dell’Italia, L’istituzione del testo unitario è avvenuto durante le leggi sanitarie nel 1934.
Al 2018 vi sono state 12 edizioni ufficiali con relativi aggiornamenti.
Farmacopea Ufficiale del Regno d’Italia (1892)
Le farmacopee nella storia ci hanno accompagnato in questo excursus sulla figura del farmacista da speziale al professionista dei giorni moderni.
Il farmacista nel tempo è sempre stato un colto studioso, passando dall’ essere uno speziale, un chimico fino ad attore indispensabile e insostituibile del servizio sanitario, nei percorsi di cura e di benessere dei cittadini.
Nella pandemia è stata una figura professionale indispensabile, spesso l’unica al fianco delle persone; la farmacia con la sua diffusione capillare in un periodo di chiusura totale è stato un presidio sempre aperto, luogo di primo intervento per la popolazione, dal supporto sanitario a quello emotivo e sociale.
Soprattutto a Brescia e Bergamo, territori particolarmente provati dalla pandemia del Covid-19, i farmacisti si sono dimostrati protagonisti delle cure sul territorio: senza il servizio dei tamponi fornito dalle farmacie e la reperibilità h24 delle stesse, la tracciabilità della curva epidemiologica e l’assistenza al malato non sarebbero state possibili con una sanità al limite del collasso per i troppi accessi. La farmacia ha così dato un contributo importante al Paese per la tutela della salute di tutti e continua a farlo anche oggi grazie al servizio delle vaccinazioni.
In questo frangente è emerso con assoluta chiarezza come sia il sistema sanitario sia il tessuto sociale abbia sempre più bisogno della farmacia dei servizi, che pone di fronte ad una trasformazione epocale del ruolo del farmacista. Nelle farmacie oggi è possibile ottenere vaccini, tamponi, analisi di prima istanza come holter pressorio e cardiaco ed Ecg grazie alla telemedicina, analisi dei parametri ematici, presa in carico del paziente cronico, pharmaceutical care e farmacovigilanza. Questa trasformazione sta portando ad un consenso e apprezzamento trasversale sempre più forte sia da parte dei cittadini, sia delle istituzioni e della politica
Ci avviamo verso una sanità sempre di più di prossimità, vicina alle persone, in cui la farmacia territoriale è diventata figura centrale, inserita e integrata a pieno titolo nel servizio sanitario nazionale e regionale. Per questo si parla sempre di farmacia di relazione,
Anche se la storia, nella realtà, ci insegna che di fatto lo è sempre stata.